Cronaca Social

Dipendenza da smartphone: disintossicarsi è possibile?

Scientificamente si chiama ‘nomofobia’ e tutti ne siamo più o meno vittime. Ma quanto è reale la paura di essere ‘disconnessi’?

2.617 volte al giorno. Qualcuno arriva anche a 5.400 volte nell’arco della giornata, praticamente una volta ogni 16 secondi. Prestazioni da record. Peccato che si tratti di quante volte al dì utilizziamo i nostri telefonini. Lo ha messo nero su bianco uno studio della società di ricerca ‘Dscout’.

Ammettiamolo: ci piace nascondere questa ‘digital-patia’ (o ‘nomofobia’ per usare un termine più scientifico) dietro paroloni che ci fanno sembrare fighissimi come ‘generazione 2.0’ (o anche 3.0), ‘gioventù digitale’, ‘bambini tecnologici’, ma in realtà siamo tutti un po’ smartphone-dipendenti.

‘Smanettiamo’ con quelli che una volta si chiamavano cellulari con la stessa velocità e ingordigia con cui berremmo un bicchiere d’acqua offertoci in mezzo al deserto.
E se l’acqua ci serve per sopravvivere, smartphone e i-phone sono diventati addirittura appendici del nostro corpo senza le quali siamo convinti di non poter vivere. Alzi la mano chi non è mai entrato in ansia dopo aver scoperto di essere uscito di casa senza cellulare o con lo smartphone a corto di batteria o copertura di rete. Si faccia avanti chi non ha mai provato la paura di non essere raggiungibile o di non poter essere in contatto con gli altri.

Social e app di messaggistica hanno rincarato la dose. E così, siamo in tanti a portare il telefonino a letto con la scusa di usarlo come sveglia, mentre i nostri ragazzi chattano sotto le coperte per tutta la notte. E siamo in molti a non lasciarlo neanche quando siamo a tavola perché dobbiamo fotografare la pasta al forno della nonna per condividerla con il resto del mondo, a non mollare quell’aggeggio infernale neppure in bagno perché dobbiamo ‘spararci’ un selfie davanti allo specchio sul lavandino, tra uno spazzolino e il dispenser del sapone che ci fanno da cornice con effetto vintage.

Eppure soltanto poco più di una generazione fa c’era la mamma che ci diceva ‘chiama quando arrivi’, ci si dava appuntamento ‘a voce’ magari il giorno prima e c’era il cordless per parlare con il fidanzato o l’amica del cuore dalla propria cameretta in seconda serata mentre mamma e papà guardavano la tv o erano già a letto. E a svegliarci, la mattina, c’era il trillo della sveglia.

A metterci ansia, poco più di una generazione fa, erano l’interrogazione a scuola o l’esame all’università, magari il colloquio per un nuovo lavoro.
Soltanto poco più di una generazione fa, non c’era nulla che potesse distrarci dall’affondare la forchetta nel ‘famoso timballo della nonna’. Era soltanto l’altro ieri che ci chiudevamo in bagno con il cordless di cui sopra per non far sentire le nostre privatissime conversazioni.

Eppure siamo qui. Noi, che anagraficamente non apparteniamo alla ‘generazione z’, non ci siamo estinti, alla faccia di ‘influencer’ ed ‘esperti di tendenze’. Però si è estinta quell’arte di arrangiarsi senza mezzi tecnologici che oggi non troviamo per sbaglio neanche su wikipedia, ma che una generazione e mezza fa era la normalità. Insomma, anche noi ci siamo fatti ‘fregare’ dal 2.0.

Comunque, sono convinta che se non avessimo uno smartphone riusciremmo a cavarcela. È come andare in bicicletta: certe cose non si dimenticano, le abbiamo solo messe da parte. E allora quanto sarebbe bello se ogni tanto ‘staccassimo’ con la tecnologia per tornare allo ‘stato brado’ della nostra adolescenza, magari coinvolgendo i nostri ragazzi?

A pensarci bene, allora non era poi così male: eravamo spensierati e meno stressati.

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