«Non riesco a respirare»: le parole di George Floyd riecheggiano nella mente delle milioni di persone che hanno visto il video che documenta la sua uccisione. Un poliziotto, durante un fermo, lo ha fatto distendere per terra e lo ha bloccato con un ginocchio sul collo.
Otto minuti di torture che hanno portato alla morte di un uomo di colore a Minneapolis, negli Stati Uniti: l’ennesimo caso di razzismo finito male. Una piaga che spinge la popolazione a scendere in piazza per chiedere equità e giustizia.
Derek Chauvin è l’autore materiale, ma insieme a lui – inermi – sono rimasti altri tre agenti di polizia. Tutte persone che dovrebbero proteggere i cittadini, non metterli in pericolo o addirittura provocarne la morte.

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Un testimone racconta dettagli significativi sul comportamento del poliziotto che, con il suo abuso di potere ha provocato la morte di George Floyd. I fatti risalgono a 12 anni fa, era il 2008. Derek Chauvin avrebbe fatto irruzione nella sua casa, lo avrebbe picchiato in un bagno per poi sparargli due volte a distanza ravvicinata. Questo succedeva durante una chiamata al 911 per violenza domestica.
«L’ufficiale che ha ucciso quel tizio potrebbe essere quello che mi ha sparato. È lui»: ha detto Ira Latrell Toles alla sorella, dopo avere appreso la notizia al telegiornale. Intanto cresce l’indignazione del sindaco Jacob Frey, che chiede l’arresto dell’agente di polizia, dando voce a gran parte della popolazione americana e non solo. Diverse sono state le manifestazioni in ricordo di Floyd.
Molti credono che, se Chauvin fosse stato fermato prima, il 25 maggio non ci sarebbe stata la morte di una vittima innocente. A pensarla così è anche Toles, aggredito dallo stesso poliziotto e rimasto vivo per miracolo.
Il testimone racconta di essere stato attraversato da un proiettile e costretto a dichiararsi colpevole per qualcosa che non avrebbe commesso. Gli agenti sono arrivati a casa sua dopo una chiamata per violenza domestica. Erano le 2 del 24 maggio del 2008. A fare la telefonata è stata la madre di suo figlio, ma è rimasto sorpreso dall’assetto con cui si sono presentate le forze dell’ordine.
«Quando ho visto che [Chauvin] ha violato la porta d’ingresso, sono corso in bagno. Ha cominciato a dare calci alla porta». Una volta sfondata, avrebbe cominciato a colpirlo. Non sapeva chi fosse, non si è dichiarato: che fosse un poliziotto lo ha dedotto da solo.
L’aggressione sarebbe continuata, fino a quando Toles non è rimasto privo di sensi e sanguinante sul ciglio della porta d’ingresso. A soccorrerlo sono stati i paramedici. Derek Chauvin e gli altri ufficiali coinvolti nell’arresto sono stati messi in congedo amministrativo retribuito in attesa dell’esito di un’indagine, ma poi reintrodotti in organico.
«Sapevo che avrebbe fatto di nuovo qualcosa. Avrei voluto avere uno smartphone con me all’epoca dei fatti »: ha detto Toles. Quello che si augura adesso è che i colpevoli della morte di Floyd vengano puniti.

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Sia Chauvin che Thao, il partner presente all’arresto del 25 maggio, sono stati precedentemente accusati di uso eccessivo della forza. Il primo, entrato in polizia nel 2001, ha ricevuto dieci reclami e due rimproveri verbali. Nel 2006, era presente alla sparatoria che è costata la vita al 42enne Wayne Reyes.
Nello stesso anno, un detenuto del Minnesota Correctional Facility ha sporto denuncia nei suoi confronti, ma poi il caso è stato archiviato. Nel 2011, è stato uno dei cinque poliziotti messi in congedo per tre giorni dopo la sparatoria che stava per costare la vita a un nativo americano.
Tou Thao, invece, è stato citato in giudizio per abuso di potere nel 2017. È stato accusato di aver preso a pugni e calci un sospettato in manette «fino a quando i suoi denti si sono rotti». Un caso che si sarebbe concluso con una transazione stragiudiziale di 25 mila dollari.
Gli altri due agenti presenti il giorno della morte di George Floyd sono reclute alle prime armi ancora in prova. Non c’è male come inizio. Sono rimasti impassibili di fronte all’uccisione di un uomo che non stava rappresentando un pericolo per nessuno.
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