Oggi ‘Cronaca Social’ vuole raccontarvi una storia. È quella di Atai Walimohammad, un mediatore culturale che oggi vive in Italia, ma che prima di trovare la sua ‘nuova famiglia’ ha sperimentato sulla sua pelle cosa significa professare la pace e il diritto all’istruzione in un Paese come l’Afghanistan.
Vi narriamo la sua storia attraverso il suo racconto inviato alla nostra redazione.
“Mi chiamo Atai Walimohammad, sono figlio di un medico. Mio padre fu ucciso dalla gente del mio villaggio. Non l’ho mai conosciuto, ero così piccolo quando accadde. Crescendo cominciai a provare curiosità per le foto e i libri che avevamo in casa e chiesi a mia madre ‘di chi sono?’. Mia mamma mi disse che le foto e i libri appartenevano a mio padre e mi raccontò che lui fu ucciso da un Imam con l’aiuto della gente del posto. Mio padre aveva sempre detto a tutta la gente del villaggio di mandare a scuola i propri figli e le proprie figlie e di non farsi saltare in aria per ‘andare in Paradiso’. Da piccolo il mio sogno era di diventare uno psicologo come mio padre: di mattina frequentavo la scuola e il pomeriggio andavo a fare i corsi di matematica, biologia, fisica, chimica e di scienza. La gente parlava sempre male di me e cercava di ostacolarmi, ma nonostante ciò non mi sono fermato e ho continuato a frequentare la scuola”.
“Nel 2011 i Talebani hanno aperto in una zona rurale, abbastanza lontana dal capoluogo, un centro di addestramento per i kamikaze, in cui veniva insegnato come farsi esplodere per Allah. Tutti i ragazzi invece di frequentare la scuola andavano alla MADRASSA (scuola coranica)”.
“Nel 2012 ho aperto, con l’aiuto dei soldati americani e il governo afgano, un centro per l’apprendimento dell’inglese e dell’informatica per bambini e adulti nel mio villaggio. All’inizio non venivano in tanti, ma poi il numero è aumentato. Una volta a settimana venivano gli americani a pattugliare il villaggio e un giorno proprio loro mi portarono i libri, i quaderni, i tappeti, le sedie, le matite, le lavagne ed i tavoli per i miei studenti. Il giorno dopo li ho distribuiti agli studenti e ho convinto tanti padri che l’educazione è l’arma migliore, anche rispetto ai fucili”.
“Un giorno, era sempre il 2012, con mio fratello Atai Dostmohammad feci una scultura che assomigliava a Buddha. La portai a scuola. Mentre la facevo vedere agli studenti è venuto l’insegnante di teologia che ha cominciato a rompere la scultura e ha incitato i ragazzi di picchiarci: sono tornato insanguinato a casa ed è iniziata a circolare nel villaggio la voce che mi ero convertito al Buddhismo. Nel villaggio si è sparsa la voce che io fossi un’infedele. Dopo quell’episodio, la gente ha smesso di mandare i figli da me. Circa un mese dopo gli Americani hanno attaccato un gruppo di Talebani nel mio villaggio e ne hanno uccisi 4. Subito dopo mi hanno accusato di essere una spia degli americani e di essermi convertito al cristianesimo.Il comandante dei Talebani e la gente del posto sono andati a bruciare il centro in cui insegnavo, poi sono venuti a casa, mentre io ero fuori, e hanno torturato e picchiato il mio fratellino Atai Dostmohammad che al fine è stato operato ai testicoli. Hanno rotto tutte le mie sculture. Tutto il villaggio e i Talebani volevano uccidermi. Sono riuscito a scappare nella provincia di Herat da dove ho lasciato definitivamente l’Afghanistan. Mio fratello Atai Dostmohammad invece una volta dimesso dall’ospedale ha cercato di frequentare la moschea non per Allah ma per la paura dei Talebani. Nel 2015 ha smesso di frequentare le Madrassa e ha deciso di fare le stesse cose che facevo io. Cercava di far capire alla gente che non è giusto farsi saltare in aria per andare in Paradiso e diceva, ‘non uccidete i bambini e le donne, e lasciateci il diritto all’istruzione’”.
“L’imam del villaggio ha emesso un decreto in cui era scritto che mio fratello Atai Dostmohammad si era convertito al cristianesimo e stava cercando convertire anche i ragazzi del villaggio, che doveva essere impiccato e lapidato davanti alla gente del posto e non doveva scappare come suo fratello. Mio fratello mi raccontò tutta la storia e gli ho detto di andare via. E’ arrivato in Bulgaria e dalla Bulgaria è stato portato in treno in Germania. Ha fatto richiesta di asilo e ora si trova a Monaco”.
“Il mio fratellastro, Atai Liaqat Ali, faceva il medico in un ospedale privato, e mentre si preparava per fare la specializzazione, fu avvicinato dai Talebani che gli chiesero di lavorare per loro. Al suo rifiuto è stato minacciato di morte e gli è stato detto di non curare i governativi. Il Suo ulteriore rifiuto si è tradotto in un rapimento in ospedale durante le ore lavorative. Al suo ennesimo rifiuto di collaborazione ha subito torture con l’elettroschock ed è stato abbandonato sul ciglio della strada. Da quel momento la sua vita è cambiata: ha subito gravi danni al cervello ed è diventato menomato. Per farlo riprendere la mia famiglia lo ha portato in un ospedale in Pakistan. Durante la sua permanenza in ospedale, i talebani hanno bruciato sia il suo ospedale che la nostra casa e la mia famiglia ha deciso di allontanare il mio fratellastro dall’Afghanistan e di farlo andare in Europa. Adesso è in Italia e si trova in un centro per richiedenti asilo a Crotone. Presenta ancora problemi legati alle torture subite dai Talebani e ha paura di essere trovato”.
“Anche il mio viaggio non è stato facile: ho viaggiato diverse volte sotto i cassoni dei TIR per potermi salvare ed ho attraversato diversi paesi. In Italia la vita non è stata facile. Per integrarmi ho studiato la lingua e dopo qualche tempo ho cominciato a lavorare in Puglia (dove c’era il campo profughi che mi ospitava) con gli avvocati che seguono i migranti. Sono diventato mediatore culturale e adesso lavoro con l’Associazione L.I.A. di Bergamo come interprete e mediatore interculturale nello Sprar, mentre a Rodi Garganico (Foggia) mi occupo di minori stranieri non accompagnati. Sto studiando per laurearmi in Scienze della Mediazione linguistica”.
“Ho trovato una nuova famiglia grazie a colleghi e ragazzi che ospitiamo. Sempre per conto dell’Associazione L.I.A., con il mio collega Matteo Vairo (Responsabile dello sviluppo dell’Associazione L.I.A.) faccio parte dell’equipe che compone la Start Up di avviamento dei nuovi Centri di Accoglienza in apertura. Qui mi trovo bene, il mio lavoro mi piace, mi sento libero di esprimere le mie idee e i miei interessi e posso vivere la fede nel modo in cui desidero. Sogno ancora di diventare psicologo come mio padre””.
“Com’è la situazione in Afghanistan? La prima cosa che vorrei dire è che la guerra non è tra noi Afghani ma sono le potenze straniere che fanno il bello ed il cattivo tempo nel mio paese, da sempre. Io mi domando come mai i talebani non vengono ancora sconfitti? Da chi sono armati? E la comunità internazionale davvero vuole aiutarci o contribuisce alla situazione di instabilità? Da circa 17 anni la ‘coalizione’ è in Afghanistan, ma tutti sanno che tutto inizia dal Pakistan, alleato degli USA e che, quindi, quel paese non è direttamente attaccabile”.
“Se volessero davvero aiutarci già l’avrebbero fatto, ma ci sono troppi interessi economici di mezzo e a rimetterci sono solo i miei connazionali che non sanno neanche per chi o cosa combattono. Direi che nessuno vuole realmente interrompere questa guerra mentre le persone come me vengono accusate di essere ‘convertiti’ e infedeli. Noi vorremmo solamente vivere in pace ed esprimerci liberamente come negli anni ’70 quando le donne non indossavano neanche il velo e il diritto all’istruzione era libero. Tutto ciò nonostante il nostro paese sia musulmano. Questo significa che il problema non è l’Islam ma gli interessi che girano intorno all’Afghanistan”.
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